CRITICA

Parlando del paesaggismo lombardo, e più espressamente di quello del Varesotto, o, ancor di più, di quello del gallaratese, il nome di Ercole Magrotti trova immediatamente riscontro e il proverbiale posto al sole.
Figura davvero di spicco nel panorama dell’arte figurativa, nella dimensione, come detto, del paesaggio che spesso ha trovato riferimento in suggestive e storiche immagini del vecchio Borgo e poetiche relativamente a quelle agresti.
Senza dimenticare gli incanti derivati pure dalle raffigurazioni lacustri, dove è intuibile una sorta di dolce abbandono, di pudore, quasi un voler consegnare anima, colori e sensazioni a madre Natura.
Certo, Ercole Magrotti ha rivelato la più straordinaria verve compositiva nelle tele in cui ha offerto, a futura memoria, l’idillica arcaicità di un mondo contadino, con tutta la sua civiltà e quotidianità, momenti esistenziali in cui protagoniste sono state anche, in una simpatica e veritiera presenza, galline, oche ed altra domestica fauna.
Colori espressivi, disegno solido, un racconto luminoso: Magrotti ha concesso solo alle dette vedute lacustri una sintesi cromatica di un certo “Chiarismo” lombardo, perché ricchi di calore sono stati i dipinti per cui è passato alla storia dell’arte figurativa.
Prima di proseguire nell’analisi, doveroso appare un inserto. L’alba del Diciannovesimo secolo non sottrasse la Lombardia all’influenza di quell’ampio fenomeno culturale che aveva già invaso parte del Paese e della stessa Europa.
Nel quale, forse con una certa utopia, finiva con l’identificarsi l’ideale di perfezione nella memoria dell’era classica, di cui la Grecia antica vantava la giusta paternità.
Non si può, inoltre, dimenticare che nell’Italia settentrionale incombeva la rivolta; Lombardia, Piemonte e Veneto si fanno protagoniste della più grande vicenda storica sulla via dell’unificazione del Paese.
Da qui sarebbe sbocciata la futura storia, da qui gli artisti avrebbero tratto spunti ed emozioni per le loro opere, coniugando gli echi della classicità all’irrompere di una realtà che stava vidimando il passaggio da una civiltà agricola ad una industriale.
Ercole Magrotti, che tale passaggio ebbe, nelle componenti fondamentali, a vivere, si lasciò incantare e “prendere”, trasferendola nelle tele, dalla liricità dell’esistenza.
I suoi quadri hanno entusiasmato, dunque profeta in patria, i Gallaratesi, quegli amanti del bello, che delle sue tele hanno arricchito le pareti di casa: con giusta soddisfazione e con l’emozione di non stancarsi di soffermarsi davanti alle immagini, come a voler entrare a far parte del racconto.
Quando Magrotti si trasferì a Roma, probabilmente non immaginava che sarebbe stato atteso da un duplice divenire artistico: duplice e, in un caso, inedito. Intanto, avrebbe varcato, sulla simbolica caravella pittorica, l’Oceano per approdare sul suolo americano: dove non scoprì, ma venne scoperto, in una mostra straordinaria, da un entusiasta pubblico che di fronte a questa semplice e possente, ad un tempo, descrizione, fra timbri coloristici e valenze grafiche, decretò un largo successo al “nostro”.
Nella Capitale, eccoci all’inedito, di Magrotti ci fu chi credette pure nella sua creatività diciamo così di ambientazione tecnica, rivelandone la verve scenografica.
In generale: lontano dal convenzionalismo e dal manierismo, Ercole Magrotti ha privilegiato un determinato senso della luce, l’intelligenza del colore, il vigore della pennellata per un complessivo stato emozionale che induce a pensare a qualche cosa di vivo, che invita alla purezza, alla semplicità dei cuori e dello “sguardo”, penetrando nei segreti dell’animo delle persone.
Di coloro che di queste tele sono stati, e sono ancora oggi, compenetranti osservatori, commossi fruitori, convinti osservatori ed estimatori.
Sì, ancora oggi, e va da sè, con un da tempo verificato aspetto da parte di chi scrive queste note, il fenomeno per cui queste opere in identificazione domestica, siano diventate come un patrimonio intimo da difendere.
Da parte dei collezionisti, da parte di persone di una certa età, o di familiari che i dipinti hanno ereditato.
Chi, dicevamo, dispone di queste tele preferisce il riserbo.
E non per timore di vedersi privare, da incursioni di malviventi, di tale “scrigno”, ma proprio per un connubio fra senso di esclusiva appartenenza e orgoglio artistico.
Per concludere: non sono mancati pittori che si sono posti sulla scia di Magrotti, realizzando opere interessanti, che, comunque, altro non hanno fatto se non esaltare ancor maggiormente la peculiarità compositiva dell’artista, come lo si chiamò, dei cascinali, delle aie, di un paesaggio da Eden campestre.

Elio Bertozzi